Il Consiglio Nazionale Forense, cioè la massima Autorità in materia di “deontologia degli avvocati”, con la recente sentenza n. 177 del 20 settembre 2023, ha stabilito che “viola la dignità e il decoro della professione il post su Facebook con cui il legale, sfruttando eventi tragici, offra prestazioni professionali personalizzate non richieste”.
Nel caso specifico, gli avvocati che sono stati deferiti al giudizio del C.N.F., pubblicavano sulla propria pagina Facebook un post apparso poche ore dopo un tragico fatto di cronaca (deragliamento di un treno in provincia di Milano, con vittime e feriti), post ove si poteva leggere quanto segue: «I prossimi congiunti delle vittime e le numerose persone che hanno subito lesioni hanno diritto di ottenere il giusto risarcimento dai responsabili dell’accaduto. Studio Legale [AAA] è in grado di fornire assistenza altamente qualificata alle incolpevoli vittime di questa sciagura. Pagamento di spese e compensi legali solo a risarcimento ottenuto. Contattaci online o chiamaci allo [OMISSIS] o al Numero Verde [OMISSIS] per ottenere una valutazione preventiva del caso senza oneri a tuo carico”.
La pubblicazione del post provocava, nel mondo forense, una veemente e sdegnata reazione per le forme, i contenuti, i tempi e le modalità con cui era stata diffusa l’offerta di prestazioni legali in favore delle vittime dell’incidente.
Tra i vari capi di incolpazione vi era la contestazione della violazione del “divieto di accaparramento di clientela”.
La norma in esame vieta all’avvocato di offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata. Nel caso di specie, il post fa riferimento alla “assistenza altamente qualificata” dello studio legale (offerta non richiesta), rivolta alle vittime della tragedia e ai loro congiunti (soggetti determinati) al fine di ottenere il risarcimento del danno (specifico affare).
Secondo la Giurisprudenza in materia, è ravvisabile l’accaparramento di clientela anche attraverso l’offerta di prestazioni professionali gratuite o ad un costo simbolico (nel messaggio postato, si precisa che la prima consulenza è gratuita e che il pagamento delle competenze avverrà solo a risarcimento ottenuto).
Il post viola, altresì, il divieto di dare informazioni comparative con altri professionisti, ovvero informazioni suggestive: il riferimento all’“assistenza altamente qualificata” è stato dunque considerato autocelebrativo e indirettamente comparativo, ed integra un illecito disciplinare.
Oltre a ciò, il post in oggetto viola i doveri che sono probabilmente i principi cardine della professione forense, e cioè i principi di dignità e decoro, gettando disdoro sull’immagine dell’avvocatura per le modalità con cui è stato pubblicato e per le tempistiche (poche ore dopo la tragedia).
Sembrerebbe dunque che gli avvocati in questione abbiano agito con troppa disinvoltura, disattenzione e leggerezza.
Secondo il Codice Deontologico, la responsabilità disciplinare discende dall’inosservanza dei doveri previsti dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni.
La art. 4 comma 1 del Codice Deontologico Forense prevede una presunzione di colpa per l’ ”atto sconveniente”, che può essere vinta solo con la dimostrazione dell’inevitabilità dell’errore o dalla ricorrenza di cause esogene.
Inoltre, non è configurabile alcuna “imperizia incolpevole”, in quanto l’avvocato è un professionista che deve conoscere il “sistema delle fonti”.
Riassumendo, il soggetto-avvocato incolpato di una simile violazione deontologica è scriminato solo nel caso in cui:
- ricorra un errore inevitabile, ossia non superabile impiegando l’ordinaria diligenza;
- oppure qualora intervengano cause esterne che impediscano l’attribuzione della condotta al soggetto.
Ai fini dell’attribuibilità dell’azione, non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione, dolo generico o specifico, essendo sufficiente la volontarietà con cui l’atto deontologicamente scorretto è stato compiuto.
Un ulteriore interessante spunto di riflessione riguarda i doveri e le responsabilità dell’avvocato nei confronti dei propri “collaboratori e dipendenti”. In altri termini, l’avvocato risponde anche dei contenuti pubblicati dalla sua segretaria sulla pagina social dello studio.
Il Codice Deontologico prevede espressamente anche la responsabilità del professionista per condotte, determinate da suo incarico, ascrivibili a suoi dipendenti, associati, collaboratori e sostituti.
La circostanza che la condotta sia imputabile ai sottoposti – in questo caso, l’impiegata di studio – non esclude la sussistenza dell’elemento psicologico in capo all’incolpato.
Infatti, secondo costante Giurisprudenza del C.N.F., è ravvisabile una responsabilità disciplinare anche nel caso di un omesso controllo del comportamento di collaboratori e dipendenti.
La norma prevede però un’esimente: il legale non è responsabile qualora il fatto integri una esclusiva e autonoma responsabilità dei suoi collaboratori.
Nel caso di specie, però, la struttura dello studio legale era articolata in modo da prevenire l’evento e dispiegare un controllo adeguato sui dipendenti.
Pertanto, permane la responsabilità omissiva (cioè per omesso controllo) degli avvocati incolpati.
Secondo la Giurisprudenza, l’avvocato che attribuisca ad un terzo, come la segretaria, la facoltà di pubblicare, senza effettuare un previo controllo, contenuti sul web (pagine social o sito) risponde personalmente dell’eventuale rilevanza disciplinare dell’attività stessa per la c.d. “culpa in eligendo” e “in vigilando”. Infatti, il legale «con l’incauta delega assume colposamente il rischio sufficiente ad integrare l’illecito deontologico, che peraltro non è scriminato né dal fatto che la pubblicazione sia avvenuta per un errore umano o tecnico del terzo, né dalla successiva rimozione del contenuto stesso».
Conclusioni: il C.N.F. ha confermato la sospensione dall’esercizio della professione per gli avvocati incolpati
Secondo il C.N.F., la fattispecie in esame rientra tra i “casi più gravi” previsti dalla norma, considerato il pregiudizio provocato all’immagine della professione forense con la pubblicazione del post.
Pertanto, il Consiglio Distrettuale di Disciplina (cioè il primo grado di giudizio) correttamente ha inasprito la sanzione della “censura” prevista sia per l’accaparramento di clientela sia per il dovere di corretta informazione circa la propria attività, comminando agli avvocati la “sospensione dall’esercizio della professione non superiore ad un anno”.
Quando viene comminata una sanzione disciplinare, occorre considerare vari criteri dell’azione contestata (la gravità del fatto, il grado della colpa, l’eventuale sussistenza del dolo e sua intensità, il comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto), considerando le circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione.
Nel caso in esame, sono stati invero valorizzati a favore degli incolpati alcuni elementi:
- la resipiscenza immediata (cioè, la circostanza di aver subito ammesso la propria responsabilità);
- la pronta e tempestiva cancellazione del post;
- la brevissima durata della pubblicazione del post (qualche ora);
- le scuse prestate;
- l’assenza di precedenti disciplinari.
Per tutte le ragioni sopra esposte, il C.N.F. ha comminato la sanzione adeguata alla violazione nella misura minima inderogabile prevista dalla norma, e cioè la “sospensione dall’esercizio della professione per due mesi” (anziché tre).
A margine di tutto quanto sopra, sia consentita una considerazione finale: è sempre, sempre necessario prestare molta attenzione a quello che viene pubblicato sui propri canali social !