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LA RESPONSABILITA’ AGGRAVATA PER LITE TEMERARIA E IL PROBLEMATICO INQUADRAMENTO DELL’ART. 96, COMMA 3, C.P.C.

Con la locuzione “lite temeraria” si fa riferimento a quell’azione legale, o resistenza ad essa, esperita con malafede o colpa grave, cioè con la consapevolezza dell’infondatezza della domanda e della tesi difensiva, ovvero in assenza dell’ordinaria diligenza nell’acquisizione di tale consapevolezza.

L’istituto in oggetto è disciplinato dall’art. 96 c.p.c., che prevede due ipotesi di responsabilità aggravata da “lite temeraria”, ovvero di responsabilità della parte soccombente per i danni provocati dall’abuso dell’agire o resistere in giudizio.

Segnatamente, il primo comma stabilisce che “se la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni…”; in altri termini, è sanzionata la condotta di colui che agisce o resiste in giudizio con la consapevolezza dell’infondatezza della propria pretesa o difesa, cioè, abusando del diritto di azione e impiegando il processo per fini che esulano dal suo scopo tipico.

Il secondo comma, invece, disciplina, in via eccezionale, la condotta di colui che ha intrapreso “senza la normale prudenza” (colpa lieve) alcune specifiche azioni giudiziali (esecutive o cautelari) a tutela di un diritto di cui, successivamente, viene accertata l’inesistenza.

L’art. 96 c.p.c., comma 1 e 2, dunque, sanziona l’esercizio del diritto di agire e di resistere in giudizio (art. 24 Cost.), solo quando questo è viziato da mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1), ovvero da colpa lieve (art. 96, comma 2). In entrambi i casi, su istanza di parte, il giudice può condannare il soccombente al risarcimento alla controparte dei danni da “lite temeraria”.

I primi due commi sono riconducibili, secondo l’orientamento prevalente, alla fattispecie della responsabilità extracontrattuale, in un rapporto di specialità rispetto alla regola generale di cui all’art. 2043 c.c., avente una funzione risarcitoria. Da ciò consegue che incombe sulla parte danneggiata il gravoso onere di provare l’elemento soggettivo della condotta altrui (mala fede, colpa grave o colpa lieve), la sussistenza del danno subito, quindi la riconducibilità di quest’ultimo alla condotta colpevole dell’agente. È, quindi, importante sottolineare che, affinché la parte soccombente sia condannata per “lite temeraria”, occorre che la mala fede o la colpa grave emergano in tutta evidenza, non essendo sufficiente provare che il soccombente abbia portato avanti tesi giuridiche che il giudice abbia ritenute errate e infondate (cfr. Corte appello Napoli sez. VIII, sentenza n. 679 del 13/02/2020).

Al fine poi di rafforzare e valorizzare la condanna per lite temeraria, quale deterrente di tutte le domande giudiziali aventi un effetto distorsivo del processo (es. introdotte per fini meramente dilatori), il legislatore ha introdotto con la Legge n. 69 del 18 giugno 2009, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., secondo cui: “quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Come emerge dal dato letterale, la responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3 c.p.c., consente al giudice di liquidare a carico della parte soccombente, anche d’ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio; tale disposizione, dunque, a differenza della responsabilità di cui ai primi due commi, non richiede la domanda di parte, né la prova dell’elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave. Da un’interpretazione letterale discenderebbe, dunque, la natura sanzionatoria del terzo comma.

Tuttavia, sul punto sono ravvisabili due differenti orientamenti: secondo un primo filone dottrinale e giurisprudenziale, la condanna ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. configura “una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2 e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente” (Cass. civ., Sentenza n. 3830 del 15/2/2021; Cass. civ., Sez. II, Sentenza n. 24125 del 30/10/2020; Cass. civ., Ordinanza n. 20018 del 24/9/2020; Cass. civ., Ordinanza n. 29812 del 18/11/2019). In altri termini, il terzo comma rappresenta una sanzione vera e propria, come tale estranea al modello della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c. con finalità riparatoria, volta a punire la condotta di chi, abusando dello strumento processuale, provoca una distorsione del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.

Alla suddetta teoria della finalità sanzionatoria si contrappone un opposto filone dottrinale secondo cui la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3 c.p.c. deve essere ricondotta, come per i primi due commi, al modello della responsabilità extracontrattuale, con valenza risarcitoria, prevedendo dunque la sussistenza del danno, della condotta colposa e del nesso di causalità.

Tale contrasto dottrinale è stato superato da una recente pronuncia della Corte costituzionale (Sent. n. 139 del 2019. Cfr. anche Sent. n. 152 del 2016) che ha riconosciuto una funzione mista al terzo comma: da un lato si afferma la “natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente”, dal momento che la norma si riferisce alla condanna al “pagamento di una somma” (segnando così una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni”), adottabile “anche d’ufficio” (confermando ulteriormente la “finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici”).Tuttavia, da un altro lato, è innegabile la concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa, dal momento che la condanna al “pagamento della somma” è prevista “a favore della controparte”.

Da ciò deriva che la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c., pur perseguendo una finalità punitiva, non identifica una sanzione in senso stretto; infatti, sebbene non sia prevista la domanda di parte né la prova del danno, il terzo comma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, richiamando così i presupposti del primo comma.

In queste ipotesi, secondo la Giurisprudenza maggioritaria, l’elemento soggettivo deve essere individuato nel concetto di abuso del processo, quale manifesta infondatezza della domanda, della difesa o dell’eccezione proposta, quindi di un improprio utilizzo degli strumenti processuali.

Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione che, alla luce dei principi giurisprudenziali largamente consolidati (ex plurimis, Cassazione civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 32001 del 28/10/2022) ritiene costituire indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – “la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non compiendo alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta” (Cassazione civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 28448 del 12/10/2023).

In conclusione, dunque, ai fini della condanna per lite temeraria ex art. 96, comma 3 c.p.c., “sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione” (Cass. civ., Sez. III, Ordinanza n. 19948 del 12/07/2023; Cassazione civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 9912 del 2018; Trib. Napoli, Sez. II, Sentenza n. 8227 del 02/12/2020; Trib. Roma, Sentenza n. 13553 del 05/10/2020).