Il presente contributo mira ad illustrare i presupposti dell’azione e le modalità di riduzione.
La legge riserva ai congiunti più stretti del defunto, ossia il coniuge o il partner dell’unione civile, i discendenti e gli ascendenti (questi ultimi solo se mancano figli), una quota del patrimonio del de cuius (cd. quote di riserva o di legittima). Il legittimario ha diritto di ottenere la propria quota in natura ed il testatore non può imporre alcun peso o alcuna condizione sulla legittima.
Se risulta che le disposizioni testamentarie o le donazioni fatte in vita dal de cuius eccedono la quota di cui il testatore poteva disporre, ciascun legittimario può esperire un’apposita azione, avente natura di accertamento costitutivo, detta azione di riduzione.
Possono proporre l’azione di riduzione anche gli eredi o gli aventi causa dei legittimari (art. 557 c.c.). Ogni rinuncia preventiva all’azione di riduzione è nulla; ma una volta che il diritto all’azione sia sorto, con l’apertura della successione, esso è rinunciabile.
Al fine di determinare la porzione spettante ai legittimari, occorre tenere conto non solo del patrimonio del de cuius al tempo dell’apertura della successione, ma anche dei beni che egli abbia donato in precedenza. In particolare, occorre, in primis, calcolare il relictum ossia il valore netto del patrimonio lasciato dal de cuius, pari al valore delle attività (beni e crediti) decurtati i debiti; al relictum deve poi aggiungersi il donatum cioè il valore di tutte le donazioni fatte in vita dal defunto. Si tratta di un’operazione di carattere contabile che viene detta riunione fittizia del cd. relictum con il donatum. Infine, per stabilire se vi sia stata lesione della legittima, bisogna tenere conto delle donazioni e dei legati ricevuti dal de cuius (cd. imputazione ex se), salvo che il testatore o il donante dispensi il legittimario da detta imputazione. Tale dispensa non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile.
Accertata la lesione dei propri diritti, il legittimario agirà in riduzione nei confronti di coloro che sono stati beneficiari delle disposizioni lesive (eredi, legatari o donatari); in particolare, l’art. 558 cc. stabilisce che la riduzione di queste disposizioni avvenga proporzionalmente, senza distinzione fra eredità e legato. Tuttavia, lo stesso testatore potrebbe aver stabilito che la riduzione non avvenga in maniera proporzionale, in questo caso le altre disposizioni non sono ridotte a meno che non si riesca a integrare la quota riservata ai legittimari. Nonostante la riduzione delle disposizioni testamentarie, potrebbe accadere che non si riesca ad integrare i diritti dei legittimari, in tal caso gli stessi potranno agire in riduzione contro le donazioni cominciando dall’ultima e risalendo via via alle anteriori. La giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che l’azione di riduzione non è azione di nullità in quanto le disposizioni oggetto di riduzione sono valide (Cass. civ., Sez. II, 30 luglio 2002, n. 11286); anzi la validità delle disposizioni lesive costituisce un presupposto dell’azione in commento (Cass. Civ., Sez. I, 11 giugno 2003 n. 9424).
Il termine prescrizionale dell’azione di riduzione è quello ordinario di dieci anni. Detto termine, qualora le disposizioni da ridurre siano le donazioni, inizia a decorrere dalla data di apertura della successione del donante (che coincide con la data in cui il donante muore). Più complesso è il computo del termine nell’ipotesi di riduzione delle disposizioni testamentarie; sul tema si sono succeduti in giurisprudenza tre orientamenti: secondo un primo orientamento (Cass. civ. sent. n. 11809/1997), ormai superato, il termine di prescrizione inizierebbe a decorrere anche in questo caso dalla data di apertura della successione del testatore; altro orientamento, oggi minoritario, (Cass. civ., sent. n. 5920/1999) sostiene che il termine prescrizionale decorrerebbe dalla pubblicazione del testamento; secondo, invece, l’ormai consolidato orientamento (Cass. civ., Sez. Unite, sent. n. 20644/2004), oggi nettamente maggioritario, il termine decorre dalla data in cui il chiamato, beneficiario della disposizione lesiva, abbia accettato l’eredità.
La rinuncia all’azione di riduzione può costituire donazione indiretta
La rinuncia del coniuge all’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima può comportare un arricchimento nel patrimonio della figlia beneficiata, nominata erede universale, tale da integrare gli estremi di una donazione indiretta, se sussiste un nesso di causalità diretta tra donazione e arricchimento. Questo è ciò che ha recentemente stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23036 del 28 luglio 2023.
La vicenda esaminata dai giudici di legittimità trae origine da un’azione di riduzione esperita da un figlio nato fuori dal matrimonio nei confronti della sorella (figlia, invece, di entrambi i coniugi) la quale, a differenza del fratello, aveva beneficiato di talune donazioni da parte del padre. L’attore, dopo essere risultato solo parzialmente vincitore in primo grado, aveva proposto appello, lamentando, che il giudice di prime cure non avesse tenuto conto dell’utilità che la sorella aveva tratto dalla rinuncia del padre a proporre azione di riduzione avverso il testamento della coniuge, la quale era allo stesso premorta e aveva nominato la figlia propria erede universale, pretermettendo in toto il coniuge. Tale motivo di doglianza era stato ritenuto infondato dalla Corte di Appello. Secondo la Corte territoriale, l’effetto della rinuncia all’azione di riduzione “è stato esclusivamente quello di precludersi la possibilità di impugnare il testamento del proprio coniuge, non anche quello di incidere sulla consistenza del proprio patrimonio disponendone in favore della figlia“.
La sentenza di appello veniva impugnata con ricorso in Cassazione. Secondo il ricorrente, l’errore della Corte d’appello sarebbe stato quello di aver escluso la sussistenza della causa donandi nella rinuncia in questione. La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata. Per i Giudici, la Corte distrettuale avrebbe errato nell’aver usato come modello, nel caso di specie, quello della donazione “diretta”, “obliterando la circostanza, che le liberalità non donative hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”. Nel caso de quo, l’impoverimento doveva rinvenirsi nel consapevole mancato esercizio, sorretto da un intento liberale, della possibilità di arricchire il proprio patrimonio, in favore della figlia che da tale azione ne sarebbe risultata impoverita.