Il presente contributo è volto a ricostruire le caratteristiche essenziali ed i limiti del dovere di riservatezza dell’avvocato, nonché le conseguenze derivanti dalla violazione di tale obbligo.
La riservatezza e il segreto sulle notizie che l’avvocato riceve dal proprio cliente costituiscono il fondamento della sua attività professionale non potendo instaurarsi, in mancanza di tale presupposto, un rapporto di fiducia tra il legale e la parte assistita. L’art. 13 del Codice deontologico forense impone all’avvocato “la rigorosa osservanza del segreto professionale” e il “massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali”. Questa norma, contenuta nel titolo I dedicato ai principi generali cui deve improntarsi l’attività dell’avvocato, deve essere letta in combinato disposto con l’art. 28 del Codice, rubricato Riserbo e segreto professionale, che chiarisce la portata e i limiti di tale obbligo.
Il primo comma dell’art. 28 Cod. deont., collocato nell’ambito dei rapporti con il cliente e con la parte assistita, riconosce il segreto professionale come un “dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato”. La qualificazione del segreto quale diritto – dovere dell’avvocato è contenuta anche nel Codice Deontologico degli avvocati europei che all’art. 2.3 consacra il principio della riservatezza fra gli elementi cardine della professione forense. Il concetto di “dovere” è posto a tutela della sfera privata del cliente il quale deve poter affidare al legale le informazioni necessarie per la tutela dei propri diritti senza che queste possano essere rivelate o diffuse. La violazione del dovere di osservare il massimo riserbo comporta la lesione di diritti fondamentali dell’individuo, in particolare la lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e del più generale principio del giusto processo tutelato dall’art. 6 CEDU e recepito anche nella Carta Costituzionale (art. 111 Cost.). Oltre che un dovere, il segreto professionale viene altresì considerato un diritto dell’avvocato poiché funzionale allo svolgimento della prestazione allo scopo di evitare interferenze esterne, rese possibili dalla divulgazione di informazioni relative all’attività difensiva.
Deve, altresì, precisarsi che il dovere di riservatezza è posto dal codice deontologico a tutela della “sfera privata del cliente e della parte assistita e non anche di quella della controparte”. Tale principio è recentemente espresso dal CNF, chiamato a pronunciarsi sul caso di un avvocato sanzionato dal consiglio dell’ordine di appartenenza perché, in una controversia tra due società, aveva formulato, nell’interesse della propria Assistita, una diffida ad adempiere che aveva poi inoltrato non solo alla Società inadempiente ma anche all’ente committente e al direttore dei lavori. Il Consiglio Nazionale Forense, in applicazione del principio sopra esposto, ha cassato la decisione disciplinare, affermando che la condotta del mittente era da ritenersi esente da responsabilità disciplinare: l’aver “rivolto a terzi notizie non inerenti l’interesse giuridico del proprio assistito, ma riguardanti la controparte, al fine di ottenere l’adempimento di un’obbligazione pecuniaria della quale il Cliente era creditore, non integra una condotta deontologicamente censurabile” (CNF, sentenza n. 2 del 14 gennaio 2020).
Oggetto del riserbo e del segreto professionale sono le “informazioni fornite dal cliente e dalla parte assistita”; il termine “informazioni” deve essere inteso in senso lato e ricomprende sia quelle comunicate direttamente dal cliente o dalla parte assistita sia quelle di cui l’avvocato sia venuto a conoscenza nell’espletamento del mandato. Al fine di tutelare pienamente la segretezza e riservatezza della parte assistita, il Consiglio Nazionale Forense ha precisato che oggetto dell’obbligo di riservatezza è “la stessa esistenza del rapporto” difensivo (CNF sent. n. 130/2013), escludendo, pertanto, che l’avvocato possa farsi pubblicità mostrando chi sono i suoi clienti.
Per quanto concerne l’estensione temporale del diritto-dovere in esame, il secondo comma dell’art. 28 ne impone il rispetto non soltanto durante lo svolgimento dell’incarico ma anche dopo che il mandato sia stato adempiuto o si sia concluso e altresì nelle ipotesi di rinuncia o non accettazione del mandato (sul tema, CNF, sent. n. 37 del 25 febbraio 2020 e CNF, sent. n. 227 del 20 novembre 2020) A sostegno di tale previsione, l’art. 68 Cod. deont. impone, al comma 3, il divieto per l’avvocato “di utilizzare notizie acquisite in ragione di un rapporto già esaurito”.
Proseguendo con l’analisi dell’art. 28, il terzo comma individua i soggetti obbligati all’osservanza della norma; tale obbligo grava non solo sull’avvocato ma anche su tutti coloro che collaborano all’attività di difesa. Più precisamente, la disposizione conferisce al legale un ruolo attivo, stabilendo che questi debba “adoperarsi affinché il rispetto del segreto professionale e del massimo riserbo sia osservato anche da dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali”.
Vi sono, tuttavia, alcuni casi in cui l’avvocato non è tenuto al segreto, tali eccezioni sono il frutto di un contemperamento di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento. Si tratta di ipotesi, specificatamente individuate al comma 4 dell’art. 28, rispetto alle quali si ritiene che il diritto di difesa, cui si ispira la disposizione in commento, possa essere sacrificato alla luce di valori di rango superiore garantiti dalla Costituzione e dalla CEDU. Si pensi, per esempio, all’ipotesi in cui la parte assistita dichiari all’avvocato che intende commettere un omicidio, in tal caso tra la tutela del diritto di difesa e la tutela del bene della vita deve prevalere quest’ultimo e, quindi, l’avvocato è svincolato dal segreto. Secondo quanto previsto dalla norma, la divulgazione delle notizie delle quali il legale è venuto a conoscenza nel corso dello svolgimento del proprio incarico è consentita in quattro casi, ossia:
– laddove sia necessaria “per lo svolgimento dell’attività di difesa”
– “per impedire la commissione di un reato di particolare gravità”
– per allegare circostanze di fatto in una controversia che vede l’avvocato contrapposto al proprio cliente o al proprio assistito
– “nell’ambito di una procedura disciplinare”.
E’ opportuno specificare che, nelle predette ipotesi, la divulgazione è consentita ma con un’importante limitazione poiché non si potrà divulgare più di quanto sia strettamente necessario per il fine che si intende tutelare.
La violazione del segreto professionale trova la propria tutela anche in ambito sostanziale penale, all’ art. 622 c.p., il quale punisce il reato di “Rivelazione del segreto professionale” e, in ambito processuale civilistico e processuale penalistico, artt. 249 c.p.c. e 200 c.p.p., i quali prevedono ipotesi di astensione dall’obbligo di testimoniare nel processo.
Il reato di cui all’art. 622 c.p. è integrato ogni qualvolta un soggetto, “avendo notizia per ragione […] della propria professione, di un segreto, lo rileva, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto”. Si tratta di un delitto punibile a querela della persona offesa e per il quale la norma prevede, “se dal fatto può derivare nocumento” a reclusione fino a un anno o con la multa da 30 euro a 516 euro.
Il segreto professionale trova la propria tutela anche nel codice di procedura penale che, all’art. 200 c.p.p., statuisce che gli avvocati non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione. Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 29495/2018) ha chiarito che la facoltà riconosciuta all’avvocato di astenersi dal testimoniare non è un’eccezione all’obbligo di testimoniare ma una manifestazione del principio di tutela del segreto professionale. Gli Ermellini hanno, inoltre, precisato che l’art. 200 c.p.p. prevede il divieto di deposizione coattiva ma non impone un divieto assoluto di esaminare il soggetto tenuto al segreto professionale, in quanto spetta al Codice Forense stabilire la misura della discrezionalità riconosciuta all’avvocato, di astenersi o meno dal testimoniare.
Infine, l’ultimo comma dell’art. 28 Cod. Deont. specifica le sanzioni previste per le ipotesi di violazione dei commi precedenti, disponendo la sanzione disciplinare della censura (art. 22 lett. b) Cod. deont.) e, qualora la violazione sia relativa al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio della professione da uno a tre anni ex art. 22 lett. c) Cod. deont.