La mancata consegna da parte del promittente venditore del certificato di abitabilità, in limine della scadenza del termine per la stipula del contratto definitivo e a fronte dell’assunzione della garanzia della regolarità urbanistica del bene, è da considerarsi un comportamento contrario a buona fede e giustifica l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento avanzata dal promissario acquirente.
La vicenda sulla quale la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi, con la sentenza n. 622 del 14 gennaio 2019, nasce dalla domanda di risoluzione del contratto preliminare formulata dal promissario acquirente per inadempimento del promittente venditore, il quale aveva garantito, in sede di conclusione del preliminare, la totale regolarità urbanistica dell’immobile e successivamente, aveva omesso di fornire al primo il certificato di abitabilità ed il progetto approvato di frazionamento dell’immobile.
La Corte, richiamando i propri precedenti in materia, chiarisce che il certificato di abitabilità è un requisito giuridico essenziale del bene compravenduto in grado di incidere sull’attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico-sociale e pertanto, la sua assenza giustifica il rifiuto del promissario acquirente di stipulare il contratto definitivo di compravendita di un immobile. I Giudici, dunque, censurano il comportamento del promittente venditore, il quale omettendo di rispondere alle richieste del promissario acquirente di consegna del certificato di abitabilità, ha violato i principi di correttezza e buona fede oggettiva, il cui fondamento si rinviene nell’obbligo di solidarietà sociale espresso dall’art. 2 Cost.
Evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria sulla mancanza della certificazione di abitabilità/agibilità La pronuncia in esame fornisce lo spunto per ripercorrere la posizione della giurisprudenza e della dottrina sulla vendita di un immobile destinato ad uso abitativo privo del certificato di abitabilità. Per molti anni l’assenza del predetto certificato è stata qualificata fra le ipotesi di nullità del contratto per illiceità dell’oggetto ex art. 1346 c.c. Tale interpretazione è oggi ampiamente superata. La ricostruzione della fattispecie in oggetto in termini di difetto genetico del contratto è stata da tempo abbandonata per abbracciare la tesi del difetto funzionale. Tre sono le patologie del negozio individuate dalla giurisprudenza nel caso in cui l’immobile sia privo del certificato di agibilità:
- vizi redibitori (artt. 1490 e ss. c.c.) ossia quei vizi che rendono la cosa inidonea all’uso cui è destinata o che ne diminuiscono il valore in modo apprezzabile;
- mancanza di qualità promesse o essenziali ex art. 1497 c.c. ossia la mancanza di quegli elementi sostanziali che, all’interno di un medesimo genere, influiscono sulla classificazione della cosa in una specie piuttosto che in un’altra;
- vendita aliud pro alio, istituto di creazione giurisprudenziale che si realizza quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso da quello pattuito ovvero presenti difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti.
La tesi di gran lunga dominante è quella della vendita aliud pro alio. In questo modo, l’acquirente è svincolato dai brevissimi termini di decadenza e prescrizione stabiliti dall’art. 1495 c.c. per le ipotesi di vizi redibitori e mancanza della qualità.
Non solo: la giurisprudenza ha correttamente distinto l’ipotesi in cui l’agibilità è assente per vizi sanabili della cosa ovvero perché la relativa domanda non è stata ancora presentata, dall’ipotesi in cui il certificato è assente per vizi insanabili della cosa. Se l’immobile presenta tutte le caratteristiche strutturali previste dalla normativa o se sono presenti dei vizi sanabili, il contratto resta valido ma il risarcimento deve essere parametrato alle spese necessarie per l’adeguamento dell’immobile e/o per ottenere il certificato. Se, invece, il vizio è insanabile, l’acquirente potrà domandare la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno.
Sul punto, peraltro, è intervenuta una recentissima sentenza della Suprema Corte (Cass. Civile, sez. VI, 28 marzo 2023 n. 8751), la quale ha chiarito che la risoluzione del contratto di compravendita è giustificata anche nell’ipotesi in cui, stante la conformazione del bene, l’agibilità non può “essere ottenuta semplicemente presentando le pratiche del caso”, ma sono necessari “lavori di adeguamento, soggetti ad autorizzazioni edilizie che non si può avere certezza che sarebbero state concesse”. I Giudici, dunque, escludono che si possa obbligare l’acquirente a farsi carico del rischio della possibile mancata concessione.