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RISTRUTTURAZIONE DELLA CASA FAMILIARE DI PROPRIETA’ DELL’EX CONIUGE

Il coniuge che si sobbarca le spese per la ristrutturazione della casa familiare di proprietà dell’altro non ha diritto ad alcun rimborso in caso di separazione. Per i giudici della S.C., tali esborsi sono stati sostenuti per rendere l’abitazione più confacente ai bisogni della famiglia e dunque, costituiscono adempimento spontaneo dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c.


Accade di frequente che ad essere adibita a casa familiare sia un immobile di proprietà esclusiva di uno dei due coniugi e che l’altro, a sue spese, provveda alla sua ristrutturazione con conseguente incremento del suo valore. Sul tema, si è recentemente pronunciata la Suprema Corte (Cass. civ., sez. II, ord. 03.09.2021 n. 23882) la quale, richiamando i propri precedenti in materia, ha escluso la ripetizione delle spese sostenute per riparazioni e migliorie apportate all’abitazione familiare di proprietà esclusiva dell’altro, ritenendo che le stesse costituiscano “adempimento spontaneo dell’obbligo di contribuzione” di cui all’art. 143 c.c., che rappresenta un corollario del principio di solidarietà ed uguaglianza fra i coniugi.


Secondo i Giudici, il coniuge o convivente more uxorio che ristruttura con denaro proprio la casa destinata a residenza familiare lo fa per realizzare un “programma di vita in comune, esercitando un potere di fatto basato su di un interesse proprio ben diverso da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, senza quindi potersi ritenere che lo stesso sia un possessore”.


La qualificazione del convivente/coniuge privo di iure proprietatis come detentore qualificato si ripercuote, altresì, sulla possibilità di invocare il disposto di cui all’art. 1150 c.c. in base al quale al possessore spetta il “diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie” ed un’“indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione”.


Come noto, detta pretesa indennitaria si fonda su una situazione di compossesso del bene, la cui configurabilità deve essere esclusa nella fattispecie in esame. La sola circostanza che l’immobile sia adibito a casa familiare non attribuisce ipso iure la qualifica di compossessore del cespite ma attribuisce al coniuge non titolare solamente un diritto personale atipico al godimento dell’abitazione.


Sebbene la giurisprudenza più recente si sia ormai orientata nel senso di escludere il rimborso delle spese sostenute, tale posizione lascia dubbi e perplessità poiché consente al proprietario della casa adibita a residenza familiare di mettere alla porta l’ex convivente/coniuge senza che gli venga riconosciuto nulla di quanto investito per la ristrutturazione dell’immobile, facendo così conseguire al suo esclusivo proprietario un ingiustificato arricchimento.


In simili casi è, pertanto, decisivo saper giocare d’anticipo regolamentando tali situazioni prima di un’eventuale crisi coniugale. Ciò è possibile attraverso la sottoscrizione di un accordo, sospensivamente condizionato al fallimento del matrimonio, che preveda l’impegno del coniuge titolare dell’immobile alla restituzione delle spese sostenute dall’altro per i lavori di restauro dell’abitazione familiare. Simili accordi, manifestazione dell’autonomia negoziale dei coniugi, sono ritenuti dalla giurisprudenza più recente pienamente efficaci in quanto non contrastanti né con l’art. 160 c.c. né tantomeno con l’ordine pubblico.

Al riguardo, si riporta, in sintesi, quanto statuito dai giudici di legittimità: “È valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di fallimento del matrimonio (nella specie trasferimento di un immobile di proprietà della moglie al marito, quale indennizzo delle spese, da questo sostenute, per ristrutturare altro immobile destinato ad abitazione familiare di proprietà della moglie medesima), in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., essendo, infatti, il fallimento del matrimonio non causa genetica dell’accordo, ma mero evento condizionale” (Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713).

https://www.studiolegalepuce.it/aca/wp-content/uploads/2023/10/1-cass-civ-03-09-2021-n.-23882.pdf